Oro nel DNA - Parte seconda.

 

Dopo mesi di buone intenzioni, tentativi poco fruttuosi e tecniche errate, avevo trovato Paolo, il testimone di quelle poche elementari, ma fondamentali regole da applicare alla ricerca dellʼoro alluvionale.

Ci fu subito intesa, forse lui capì la mia passione e io la sua nostalgia alimentata da quella febbre che noi tutti conosciamo ognuno a proprio modo, o forse era solo il momento giusto, quello che aspettava da tempo: unʼoccasione per tornare ad ascoltare il cozzare dei sassi e il canto della corrente e non essere trattato da vecchio. Un momento di evasione da una routine che in qualche modo teneva imbrigliato uno spirito libero.

Nel 1973 molto più di oggi, ottantaquattro anni erano tanti, quindi sì: era vecchio Paolo, ma soprattutto un poʼ segnato dalle fatiche di una vita dura, molti acciacchi, problemi alla schiena e alle ginocchia, mani dure, nocche nodose, dita tozze con calli che non sarebbero mai andati via per aver lavorato mezza vita nei campi e lʼaltra metà a contatto con lʼacqua fredda dellʼEva dʼor. Si perché Paolo, che volle insegnarmi i segreti del suo mestiere, era uno dei pochi sopravvissuti di quella generazione di cercatori degli anni trenta che cercarono sostentamento dalle gialle pagliuzze del fiume Orco.

Condivise ciò che sapeva a patto che lo portassimo ancora sul fiume e facessimo noi tutto il lavoro in quanto, pur avendo molta nostalgia del mestiere del cercatore, da parecchi lustri non poteva più praticare lʼattività per problemi fisici.

Non fu facile convincere la figlia, in fondo eravamo degli sconosciuti, ma quando, allʼidea di tornare sul fiume, le labbra del vecchio si piegarono in un sorriso e i suoi occhi presero a brillare, fu lei per prima a capire che in fondo gli avrebbe fatto un gran bene. Gli piaceva, gli piaceva eccome...

Lo portammo diverse volte sulle punte che ci faceva scoprire, nei pressi di Feletto Canavese. Lui ci insegnava a guardare le pietre e la sabbia, a vedere come aveva lavorato lʼacqua in quel posto durante lʼultima piena, come interpretare le pennellate di magnetite tra la ghiaia. Ma anche a fermarci per guardare la nebbiolina che stagnava al mattino o a osservare le ondate di arborelle che, la sera risalivano i pigri rivoli secondari del fiume oppure a scambiare due parole con un pescatore che batteva il torrente. In questo caso scattava il rituale con uno scambio di battute che non cambiava mai: «Ai dan?» nel senso letterale «ci danno?» «abboccano?» La risposta era sempre: «Quaicòsa...», come dire «Sì, un pochino». Ma subito di rimando il pescatore ribatteva «E vojautri na feve?» cioè: «ne fate?» Di oro naturalmente. E la nostra risposta era sempre quella: «Qualcosa...» Molte volte la pantomima finiva lì: un cenno di saluto e ognuno per la sua strada, nel senso che il pescatore se ne andava giù... (o su) per il fiume e noi tornavamo a occuparci di alimentare la nostra canaletta, a volte, il rituale continuava: lui ci faceva vedere le sue prede nel cesto e noi gli facevamo vedere le nostre scanalature nelle quali peraltro, aveva già cercato di sbirciare senza dare troppo nellʼocchio.

In figura 4 vedete le placchette più grandi che si possono trovare (ad esclusione di quelle eccezionali). Arrivano anche a 10-12 millimetri nella loro dimensione maggiore

Placchette grandi

 

Ci tornai parecchie volte nella cascina di Paolo a sentire le sue storie di ritrovamenti clamorosi, di stagioni scarse, di piene furibonde del fiume. Gli portavo del vino. Lui parlava della sua di bottiglia di vino, piena a metà dʼoro (che non vedemmo mai) e che mi sono sempre immaginato, polverosa, anonima e identica alle altre piene di barbera in qualche recondito anfratto della sua cantina. (A proposito: piena a metà, considerando i vuoti tra le pagliuzze, vuol dire sui cinque chilogrammi... dʼoro!). Quando se la sentiva lo portavo sul greto dellʼOrco, lui si sistemava sul suo sgabello e, con la punta del bastone, indicava a me e a mio zio, mio compagno di avventura,  come fare. La canaletta lʼavevo modificata secondo le sue indicazioni ed era diventata una vera canaletta canavesana anche se era fatta con il legno sbagliato. Ci aveva insegnato lʼuso della batea facendoci vedere come la usava lui. In figura 5a vedete la mia gloriosa batea vecchia di quarantʼanni eseguita secondo le sue indicazioni e copiata con un pantografo dalla sua.

Batea

Nel dettaglio (figura 5b) si vedono i pori caratteristici del palissandro con cui è realizzata.

Batea dettaglio

Ci insegnò ad aprire gli occhi su quello che il fiume poteva aver fatto negli anni precedenti. Un giorno eravamo sul greto vicino alla sponda di un isolotto in mezzo a una specie di delta, dove il fiume si divideva in due o tre rami separandosi, ci indicò un tratto dellʼargine coperto da erbacce e sterpi e ci fece rimuovere lo strato superficiale: «Ma qui mica passava lʼacqua» obiettai. «Una volta sì» rispose. Rimosso lo strato erboso di una quindicina di centimetri, scoprimmo che sotto non cʼera terreno consistente, ma ghiaia. Ci aveva portato su una delle vecchie punte che un tempo era sua consuetudine lavorare. Quel week-end “ne facemmo” oltre otto grammi. In figura 6, potete rendervi conto che otto grammi dʼoro alluvionale son un gran bel vedere.

8 grammi

Oggi molte operazioni non sono più permesse, ma negli anni settanta il fiume era molto più libero di fare e disfare. Non ricordo di essere mai tornato nello stesso tratto, a distanza di qualche settimana e di ritrovarlo come la volta precedente. Lavoravamo smuovendo parecchio materiale, anche se cercavamo, già allora, di rimettere in ordine. Oggi è diverso, i fiumi sono diventati oggetti sensibili, delicati e lʼacqua che vi scorre sempre più preziosa, colgo quindi lʼoccasione per esortare tutti gli appassionati, a rispettare le leggi e le regole che tutelano lʼambiente. La sabbia che avrete lavorato sarà appena qualche metro a valle e presto altra la sostituirà, ma le pietre smosse possono essere rimesse a posto in cinque minuti.

Con o senza Paolo noi perlustravamo le sponde dellʼOrco e del Malone. Allʼepoca per arrivare sul greto, a volte ci si doveva addentrare in un territorio strano, una specie di terra di nessuno, preda dei capricci del fiume. Alberi fitti, qualche sentiero, guadi, sottobosco impraticabile, liane... Sì liane, non saprei come altro definirle tanto vi somigliavano, una natura selvaggia a pochi chilometri da Torino e tanta fauna: scoiattoli, anatre, aironi, fagiani, quaglie, salamandre, tassi, rari cinghiali, una volta una coppia di daini. Credetemi: la natura, scorci osservati da punti di vista inconsueti, sono lʼaltra faccia della ricerca dellʼoro. Una parte che può dare grande appagamento.

Spesso mi chiedo quale sia la più bella delle due.

(segue...)


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